Alcuni residenti del Prato, che hanno condotto una veemente campagna contro il servizio pubblico di trasporto, hanno diffuso una valutazione economica da cui risulterebbe che il prolungamento della linea 351 al Prato sarebbe un disastro per le casse dell’ATAC. Abbiamo rifatto i calcoli con una metodologia corretta. I risultati sono sorprendenti: la vituperata fermata al Prato è conveniente per l’ATAC! Infatti, tra errori di metodo ed errori di misura e di calcolo, i ricavi erano valutati per metà e i costi erano gonfiati di circa cinque volte. Non poco!

Non siamo tra coloro che sostengono che i servizi pubblici si debbano sostenere integralmente con i proventi diretti, tuttavia il valore economico, riferito solo alla fermata “Fioravanti – Solera”, è talmente enorme e al di fuori di ogni verosimiglianza, che, incuriositi, siamo andati ad esaminare lo studio in dettaglio.

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Da quando è stata istituita la linea di autobus 351, che serve anche il Prato della Signora, con una fermata in via Fioravanti, angolo largo Solera, sono fioccate proteste e sequenze di e-mail da parte di alcuni esponenti di un “Comitato Residenti”, che già aveva espresso un parere negativo in occasione dell’indagine esplorativa avviata nel 2012.
Dopo aver esaurito gli argomenti più banali e, diciamo pure, più umoristici, come ad esempio l’inquinamento prodotto da un bus che passa ogni quarto d’ora, solo di giorno, o l’afflusso di auto di estranei che parcheggerebbero al Prato allo scopo di proseguire il viaggio con il servizio pubblico (?!?), i condomini, considerato che il bus a volte rimane bloccato in largo Vessella a causa delle auto che sostano in divieto di fermata o in doppia fila, hanno sostenuto che fosse necessario sopprimere il bus, anziché far rispettare i divieti (evidentemente incompatibili con la mentalità di una certa Roma menefreghista). Dopo che è stato dimostrato che, quando i divieti sono rispettati (non sempre, purtroppo), il bus passa tranquillamente dalla rotatoria incriminata, due altri condomini hanno cavalcato l’originale tesi della scarsa convenienza economica del servizio.
Originale forse non tanto, perché, effettivamente, sostenere che un servizio pubblico debba necessariamente essere remunerato dai proventi propri (nel caso specifico dalla vendita dei biglietti), se ne parla dai tempi della Thatcher, ma tendenziosa sicuramente, perché se fosse realmente applicata, a Roma non avremmo alcun trasporto pubblico, né acqua, né illuminazione pubblica. Sicuramente nessuna strada, perché, per quanto in condizioni deplorevoli, ancora non sono a pedaggio.
Oltre che tendenziosa, però, sventuratamente per gli autori, la valutazione economica è clamorosamente sbagliata.
Avevamo steso un velo di pietà su questo “incidente di percorso”, che risale ormai a fine febbraio 2015, ma poiché esso è stato ripreso con una certa acredine, attraverso un’altra sequenza di e-mail inviate ai residenti e alle autorità municipali alla fine di luglio (è noto che il caldo rende litigiosi), dopo averne rilevato la strumentalità, pensiamo sia necessario evidenziane anche gli errori. Che sono numerosi: e precisamente due di metodo e tre di calcolo (tutti ovviamente in una sola direzione, ciò che si chiama tendenziosità).
La valutazione essenzialmente si basa sul confronto tra il costo sostenuto dall’ATAC per prolungare la linea 351 fino al Prato e i ricavi che si ottengono dai passeggeri che si servono della fermata “Fioravanti – Solera” (l’intero documento di valutazione può essere scaricato da qui).
Gli autori svolgono una serie di calcoli, al termine dei quali concludono che la fermata del Prato porta ricavi per 15.000-20.000 euro/anno e costi per 110.000-120.000 euro/anno, cioè un disavanzo di 100.000 euro/anno. Centomila euro!!! Una scoperta scientifica o uno scoop giornalistico? Ohibò: sopprimiamo la fermata del 351 al Prato, di corsa!!! Certo, se fosse così, converrebbe pagare il taxi a tutti i passeggeri!
Un risultato così clamoroso (pensate: un disavanzo di centomila euro/anno per una sola fermata!!!) ci ha suscitato la curiosità di andare a vedere come fossero fatte le valutazioni: male, malissimo, e adesso lo spieghiamo. Allacciate le cinture.


La metodologia e il primo errore: la valutazione dei costi

Per valutare i costi del servizio, gli autori sono ricorsi ad un’autorevole fonte: un documento dell’ASSTRA (Associazione Trasporti), presentato al Parlamento e denominato “Un modello di calcolo del costo standard del trasporto pubblico locale e regionale automobilistico”.
Ora, sorvoliamo sul fatto che l’ASSTRA è l’associazione “datoriale” delle Aziende di trasporto, e, come tale, non è certamente interessata a minimizzare i costi interni delle Aziende rappresentate, specie quando va a “battere cassa” presso il legislatore, forse per richiedere degli aumenti di tariffe. E quindi, qualche sospetto che i valori esposti siano un po’… gonfiati ce l’abbiamo. Insomma, come chiedere alla CGIL se gli operai sono ben pagati o chiedere all’oste come è il vino.
Lasciamo perdere: Bruto è un uomo d’onore e concentriamoci sulla metodologia di valutazione economica in quanto tale. Ebbene, il parametro che viene preso in considerazione è il “costo diretto operativo del servizio – 2,7 euro/km”: si tratta di un tipico parametro medio di contabilità industriale (“costo standard”, appunto, come dice il titolo del documento), con cui è possibile fare tutta un’interessante serie di considerazioni, come ad esempio confronti di efficienza tra diverse Aziende (l’Atac è più efficiente dell’ATM di Milano?), il livello medio di copertura dei costi ai fini della determinazione delle tariffe, e così via. Con questo tipo di parametro, tuttavia, non è certamente possibile fare delle valutazioni sugli effetti economici dell’aumento (o della riduzione) della produzione (nel caso specifico della lunghezza delle linee). Queste ultime, infatti sono valutazioni che non attengono ai valori “medi” ma ai valori incrementali, che gli economisti chiamano “marginali”.
Spieghiamo meglio: i costi medi, quale quello citato, sono calcolati in un modo concettualmente semplice (anche se poi nelle Aziende è maledettamente complicato perché la contabilità non è generalmente classificata per finalità gestionali, ma di bilancio). Si prendono tutti i costi pertinenti (anche detti “rilevanti”, con un anglicismo) sostenuti in un dato periodo (normalmente un anno) e si divide per il numero di elementi prodotti nello stesso periodo – fine. Nel caso specifico si prendono tutti i costi delle Aziende di trasporto direttamente attinenti all’operatività del servizio e si divide per il numero di chilometri percorsi. Quindi, ci saranno i costi del gasolio, dell’olio lubrificante, del consumo dei pneumatici, delle riparazioni, ma anche il costo di leasing o di ammortamento dei mezzi, l’assicurazione, gli stipendi, ecc.
Come detto, questi costi non si prestano a fare valutazioni “marginalistiche”, e cioè per dire: quanto mi costa se allungo un percorso o quanto risparmio se lo accorcio. Il motivo è chiaro: in questi casi posso risparmiare alcune voci, cioè i costi “variabili”: gasolio ecc. (https://it.wikipedia.org/wiki/Costo_variabile) ma non certo altre voci, cioè i costi “fissi”: assicurazione ecc. Anzi, se per ipotesi accorciassi i percorsi di tutte le linee del 10%, i costi “fissi” dovrebbero essere suddivisi per un numero inferiore di chilometri, e, quindi, i costi medi aumenterebbero (!). Insomma, un errore madornale di metodo: se un collaboratore in Azienda ci proponesse un calcolo del genere, sicuramente gli faremmo cambiare mestiere prima che le sue valutazioni conducano al fallimento dell’Azienda (infatti l’effetto che questo errore provoca normalmente è quello di dimostrare che non conviene mai aumentare la produzione, come illustrano numerosi testi di Economia industriale).
Ma allora come si deve fare? E’ molto semplice: bisogna considerare un altro tipo di parametro, e cioè il “costo marginale di produzione” (https://it.wikipedia.org/wiki/Costo_marginale) , in parole più semplici: quanto costa un chilometro in più percorso da un bus (e non un chilometro in media!!!). Ci ritorneremo più tardi, ma è del tutto evidente che questo costo è sensibilmente più basso del valore medio, perché comprende sicuramente il costo del gasolio, del consumo dell’olio, dei freni, eccetera, ma non quello dell’assicurazione o dell’ammortamento (o del leasing) del mezzo, e così via, che sarebbero comunque dovuti indipendentemente dal percorso (ovviamente entro certi limiti, cioè entro i limiti tipici delle analisi marginalistiche come quella in questione).
E quanto vale questo diverso parametro? Considerando che un bus a 30 km/h (la velocità che tiene nella tratta in questione) percorre circa 4-5 km con un litro di gasolio, si tratta di circa 0,40 euro/km, aggiungendo tutti gli altri costi “diretti” e “marginali”: olio, freni… diciamo altri 20 centesimi? e poi aggiungiamo anche il costo del lavoro dell’autista (anche se alcuni economisti storcerebbero il naso) ed arriviamo a 1,70 euro/km. Una bella differenza rispetto ai 2,70 euro/km del parametro medio.


Il secondo errore di metodo: la valutazione del numero dei passeggeri

Per valutare i ricavi diretti, gli autori hanno prodotto una tabella, in cui hanno riportato il numero identificativo della vettura e la quantità di passeggeri saliti e scesi dal bus nelle corse di un giorno feriale (per la precisione il 17/2/2015, un martedì), dalle ore 5.30 alle ore 22.30. In effetti, alcune corse non sono documentate, nel corso della giornata… si sa, non è possibile rimanere a guardare per un giorno intero, qualche pausa è legittima, per cui il calcolo è stato fatto su sole 54 corse, giungendo alla conclusione che i 65 utenti giornalieri rilevati costituiscono una media di 1,2 passeggeri per corsa. Curiosamente, non sono documentate anche le corse dalle ore 5.30 alle ore 6.50, e così anche dopo le 20.30 (nella colonna “bus” compare un punto interrogativo), tuttavia esse sono state considerate egualmente nel calcolo, asserendo che avevano zero passeggeri. Per non aggiungere altri punti interrogativi, abbiamo corretto opportunamente il calcolo ed il risultato è venuto 1,45 passeggeri per corsa.
Ma non è questo il punto principale: senza essere esperti di statistica, si intuisce facilmente che un campione rappresentato da (una parte di) un giorno qualsiasi (le condizioni meteo non sono riportate) un’idea vaga del fenomeno può fornirla, ma da qui a trarre conclusioni generali sull’opportunità di mantenere in piedi un servizio, ce ne corre. Certo, non possiamo chiedere aiuto all’ATAC, che sicuramente, dati i “potenti mezzi” di cui dispone, ne sa ancora meno, tuttavia, se si volesse fare una valutazione seria, occorrerebbe rilevare a campionamento più giorni, con condizioni meteo diverse (immaginiamo che in caso di pioggia il servizio venga utilizzato di più…), in diversi giorni della settimana, in diverse stagioni, e così via. Ma apprezziamo lo sforzo realmente encomiabile – se fosse volto a più nobili cause – e procediamo.


Il primo errore di calcolo: la lunghezza della tratta per la valutazione dei costi

Non solo la metodologia di valutazione dei costi è sbagliata, come abbiamo visto sopra, ma gli autori incorrono anche in un grossolano errore di calcolo: infatti essi moltiplicano il costo medio chilometrico per la lunghezza di tutta la tratta da Largo Somalia a Largo Solera e ritorno, cioè per 2 km. Ma in quella tratta non c’è solo la fermata del Prato: ci sono ben cinque fermate!!! Ora, volendo fare i calcoli con un minimo di decenza, i sistemi sono due: o si considerano anche i passeggeri che salgono e scendono nelle altre quattro fermate, oppure si considera la lunghezza della sola tratta realmente attinente la fermata del Prato, e cioè da Largo Vessella (dove è presente la fermata Catalani-Vessella) a Largo Solera e ritorno. Escludendo per ovvi motivi il primo sistema, e ricorrendo alle mappe di Google, si trova che il valore da inserire nel calcolo non è 2 km, ma circa 700 metri. Una bella differenza, no?


Altri due errori di calcolo: la valutazione dei ricavi

Il primo errore di calcolo riguarda l’aver diviso i passeggeri rilevati per un numero di corse superiori a quelle effettivamente documentate, e l’abbiamo già rilevato: il calcolo più “onesto” darebbe 1,45 passeggeri per corsa e non 1,2. Ma poiché la tabella non è chiara e il numero delle corse ivi riportate non corrisponde a quelle dell’orario ufficiale, sorvoliamo…
Poi c’è un mistero: gli autori affermano che “nell’ipotesi di tutti i passeggeri paganti” un biglietto di 1,5 euro, i ricavi annuali di competenza sarebbero di 15.000 – 20.000 euro/anno. E purtroppo non danno alcuna altra spiegazione.
Rifacciamo i conti, a ritroso, solo per capire… Il 351 farebbe 21.554 corse in un anno (in realtà, consultando l’attuale orario sarebbero circa 19.000: un altro errore o un cambio di orari? – poco importa). Se i ricavi fossero pari a 15.000 – 20.000 euro/anno ed ogni passeggero pagasse 1,5 euro, come sostenuto nello studio, significherebbe che i passeggeri sarebbero 10.000-13.000 all’anno. Ma non erano 1,2 per ogni corsa, cioè circa 26.000 all’anno? Dove sono finiti gli altri diecimila passeggeri?
O ci sfugge qualche considerazione di maggiore sofisticazione introdotta nello studio e non menzionata? Un fattore di interesse passeggero/fermata? Per esempio: solo la metà dei passeggeri – ipotesi: quelli che salgono? – contribuiscono alla redditività della fermata? Non possiamo saperlo, lo studio non lo dice. Ma se fosse così sarebbe un (ulteriore) errore: infatti (quasi) tutti quelli che si servono della fermata utilizzano il bus per il solo motivo che raggiunge il Prato. Data la caratteristica della fermata (non di scambio e geograficamente terminale e decentrata) in mancanza del bus la maggior parte dei passeggeri (diciamo l’80%?) utilizzerebbero mezzi alternativi (auto privata, car sharing o pedibus calcantibus) e non pagherebbero il biglietto. Anzi, proprio chi prende il bus in un verso è usualmente “costretto” a prenderlo anche in senso opposto.


Rifacciamo i conti

Concludiamo provando a fare i calcoli con un metodo e dei valori più corretti.
La valutazione del numero medio di passeggeri per corsa è piuttosto poco scientifica, ma non abbiamo altro, quindi con il beneficio di inventario ammettiamo (e non concediamo) che siano quelli rilevati nella tabella, che in media fanno 1,2 per corsa (o meglio: 1,45). Ponendo il fattore di interesse pari a 0,8 (l’ 80% di coloro che si servono della fermata utilizzano il mezzo pubblico esclusivamente perché ferma al Prato), i ricavi di un anno sarebbero pari a 33.000 euro:
19.000 (corse) x 1,45 (passeggeri per corsa) x 1,5 (euro per passeggero) x 0,8 = 33.060 euro
(e non 15.000 – 20.000, ma più o meno il doppio di quanto indicato nello studio)
E i costi? usiamo il metodo di valutazione corretto, la distanza reale di 700 metri e il parametro di costo più realistico di 1,6 euro/km. Fatti i conti, i costi di un anno sarebbero pari a 22.600 euro:
19.000 (corse) x 0,700 (lunghezza in chilometri) x 1,7 (costo incrementale di un chilometro) = 22.610 euro
(e non 110.000 – 120.000 – cinque volte di meno di quanto indicato nello studio!!!!).


Insomma, grazie agli sforzi dei nostri condomini abbiamo scoperto che il prolungamento del 351 al Prato è un vero business per l’Atac, con un margine positivo del 45%. Un grazie di cuore.

 

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